Il male compiuto può essere la prigione della propria anima, la gabbia in cui si chiudono le spire dell’Uroboro a formare una catena perpetua. È la traduzione visiva del karma che trattiene l’incoscienza nella ripetizione infinita, fino a che lo spirito non tesaurizzi nel profondo l’esperienza e possa così uscire del suo cappio. Rivivere il dolore e la sofferenza fino a che la coscienza smetta di evadere dal parteciparvi attivamente: un incubo che può portare alla follia e continuare anche oltre ad essa. Una donna, un non luogo fuori dal tempo, fuori tempo, un’atmosfera tesa, pronta a incrinarsi. Di colpo l’orologio fa clack e qualcosa spezza gli equilibri dello scorrere cronologico della vita: avanti, indietro, nel sogno, nella realtà, nel passato o in un altro sogno, in un passato diventato incubo. Nevrosi isteriche? Maledizioni dall’aldilà? Un groviglio di passioni viscerali e morbose che intorbidiscono i confini tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, delineando il cerchio desolante della solitudine in cui è abbandonata una donna, vittima della colpa. Colpa sua, colpa di altri, poco importa: la colpa è il demone da cui è posseduta in un ripetersi infinito, snervante. Senza sonno, senza pace, senza Dio, tutto il male torna ancora, e ancora… e ancora…